Covid-19: danno cardiaco riscontrato in più della metà dei pazienti dimessi dall’ospedale

Che ci fosse una correlazione tra infezione da COVID-19 e danni cardiaci, è apparso evidente già dai primi mesi dall’inizio di questa pandemia. Dai primi dati provenienti dalla Cina a fine Febbraio 2020, si evidenziava la presenza di problemi cardiovascolari rilevanti nei pazienti colpiti da COVID-19.

Molti studi pubblicati recentemente evidenziano come in circa il 20-25% dei pazienti ospedalizzati con forme severe di COVID-19 si evidenzi un danno miocardico acuto come dimostrato da un incremento degli enzimi di miocardionecrosi (1-2-3).

Pazienti con malattie cardiovascolari sviluppano forme più gravi di Covid-19 e la mortalità è aumentata. In particolare, la mortalità per Covid-19 nei pazienti con malattia cardiovascolare è 11%, ovvero è aumentata di ben cinque volte rispetto ai pazienti senza malattia cardiovascolare, 7% nei diabetici e 6% negli ipertesi.

Il ruolo delle citochine

La disfunzione endoteliale, ovvero l’alterazione del tessuto vascolare, è una caratteristica del COVID-19 che permane dalla fase proliferativa a quella sistemica. Insieme ad alti livelli di citochine pro-infiammatorie, è facile riscontrare sindromi simili a vasculiti a livello cerebrale, cardiaco, renale o gastrointestinale.

Non tutti i pazienti COVID-19 che manifestano alterazioni elettrocardiografiche, come anomalie del segmento ST o dell’onda ST-T, mostrano anche opacità tomografiche toraciche concomitanti.

È quindi possibile che, in individui predisposti, il sistema cardiovascolare sia colpito prima del sistema respiratorio, probabilmente a causa di alti livelli circolanti di citochine pro-infiammatorie, ormoni dello stress, squilibri elettrolitici o cardiotossicità da farmaci.

Le aritmie gravi sono condizioni potenzialmente letali che possono verificarsi in oltre il 30% dei pazienti COVID-19 di gravità medio-alta.

 Il nuovo coronavirus SARS-CoV-2,da subito, si è dimostrato capace di causare gravi conseguenze a livello cardiaco, con complicanze che possono andare dalla miocardite, alla pericardite, passando attraverso lo scompenso cardiaco ed un pattern di tipo aritmico. Tali espressioni patologiche, hanno dimostrato di poter persistere anche a distanza dalla guarigione clinica.

Lo studio ESC del 18 Febbraio

Secondo un recente articolo pubblicato sull’European Heart Journal, circa il 50% dei pazienti che sono stati ospedalizzati con grave infezione da COVID-19 e che hanno mostrato livelli elevati di troponina, hanno subito danni cardiaci persistenti.  Nel suddetto lavoro, la lesione è stata rilevata mediante scansioni di risonanza magnetica (MRI) almeno un mese dopo la dimissione.

II danni rilevati in questo studio, includono la miocardite, esiti di necrosi miocardica (infarto) o danni da ridotta perfusione miocardica (ischemia) o addirittura  combinazioni di tutte e tre le patologie suddette.

Lo studio è stato condotto su 148 pazienti provenienti da sei ospedali per malattie acute a Londra, ed è il più grande fino ad oggi condotto per indagare pazienti convalescenti da COVID-19 che avevano aumentato i livelli di troponina durante la degenza, indicando un possibile problema cardiaco.

Partendo dal fatto ormai assodato che la troponina viene rilasciata nel sangue quando il muscolo cardiaco è danneggiato, i ricercatori hanno  condotto lo studio per verificare quali danni potevano essere insorti  nei pazienti affetti da infezione da COVID-19 che presentavano l’elevazione di tale enzima.

Molti pazienti ricoverati in ospedale con COVID-19 hanno aumentato i livelli di troponina durante la fase critica della malattia, in particolare durante la fase della cosiddetta “tempesta citochinica” quando cioè nell’organismo si instaura una esagerata risposta immunitaria all’infezione.  

Tutti i pazienti arruolati in questo studio, avevano manifestato aumentati livelli di troponina e, per tale ragione sono stati poi seguiti anche dopo la dimissione e studiati con con scansioni di RMN cardiaca, al fine di comprendere le cause e l’entità del danno.

I ricercatori hanno studiato i pazienti COVID-19 dimessi fino a giugno 2020 da sei ospedali di tre fondi NHS di Londra: Royal Free London NHS Foundation Trust, Imperial College Healthcare NHS Trust e University College London Hospital NHS Foundation Trust.

I pazienti che avevano livelli elevati di troponina , sono stati studiati con risonanza magnetica del cuore dopo la dimissione e sono stati confrontati con quelli di un gruppo di controllo, che non avevano avuto COVID-19, nonché con 40 volontari sani.

A questo proposito, la professoressa Marianna Fontana, docente di cardiologia all’University College di Londra (Regno Unito), che insieme al dottor Graham Cole (cardiologo presso l’Imperial College di Londra) ha condotto la ricerca, ha affermato che “livelli elevati di troponina sono dimostrati associati ad esiti peggiori nei pazienti COVID-19. Occorre considerare, però che i pazienti con grave malattia da COVID-19 spesso hanno problemi cardiaci preesistenti e spesso presentano comorbilità tra cui diabete, ipertensione arteriosa ed obesità che possono facilitare l’instaurarsi di successivi maggiori danni a livello cardiaco, in concomitanza dell’infezione da COVID-19. Allo stato non è possibile prevedere in che modo il cuore può essere danneggiato, ma lo studio attraverso la RMN cardiaca può aiutare ad identificare diversi caratteri di lesione, ed in ultima analisi permettere una diagnosi più accurata ed anche di indirizzare i trattamenti in modo più efficace “.

 “Abbiamo trovato – continua la professoressa Fontana – un numero molto consistente di lesioni del miocardio, anche a distanza di uno o due mesi dalla dimissione. Sebbene alcune di queste lesioni potessero essere anche preesistenti, le scansioni MRI mostrano che molte erano sicuramente recenti, e con buona probabilità, causate da COVID-19. È importante sottolineare che il modello di danno evidenziato era variabile, suggerendo che il cuore è a rischio di diversi tipi di lesione. Sebbene abbiamo rilevato solo una piccola quantità di danni attivi, abbiamo constatato che alcuni danni coesistevano anche in presenza di una funzionalità contrattile non compromessa, per cui tali danni sarebbero potuti sfuggire con tecniche diagnostiche diverse dalla RMN cardiaca. Nei casi più gravi, appare consistente il rischio che a tali danni possa seguire lo sviluppo di insufficienza cardiaca cronica. Tuttavia appare necessario indagare ulteriormente su questo aspetto “.

L’analisi dello studio

Ad un esame più dettagliato dello studio, appare importante sottolineare come la funzione contrattile del ventricolo sinistro del cuore, era normale nell’89% dei 148 pazienti studiati, ma in 80 pazienti (54%) erano presenti esiti cicatriziali o lesioni del muscolo cardiaco.

Un altro dato che appare evidente è il pattern di cicatrici o lesioni tissutali: questo era di origine infiammatoria in 39 pazienti (corrispondente al 26%) derivato da cardiopatia ischemica (che include infarto o ischemia) in 32 pazienti (22%) o da  entrambi  i fattori contemporaneamente in 9 pazienti (6%). Mentre 12 pazienti (8%) sembravano avere un’infiammazione cardiaca ancora in atto.  

A questo proposito – aggiunge la professoressa Fontana – appare evidente che la lesione relativa all’infiammazione ed alla cicatrizzazione del cuore appare un fenomeno comune nei pazienti COVID-19 che presentano un innalzamento della troponina, ma appare per lo più di entità limitata e non sembra avere conseguenze  importanti per la funzione cardiaca”.

Questi risultati ci offrono due opportunità: in primo luogo trovare la chiave per prevenire la lesione su base infiammatoria e coagulativa (e la coagulazione del sangue potrebbe avere un ruolo, per il quale abbiamo potenziali trattamenti). In secondo luogo, valutare nel tempo le conseguenze della lesione miocardica per identificare soggetti che trarrebbero beneficio da specifici trattamenti farmacologici di supporto al fine di proteggere la funzione cardiaca nel tempo “.

I risultati dello studio, però hanno un limite, che è quello di avere selezionato solo pazienti sopravvissuti ad un’infezione da coronavirus che richiedeva il ricovero ospedaliero.

I pazienti convalescenti – continua la prof. Fontana – arruolati in questo studio avevano tutti sviluppato una grave malattia COVID-19; mentre i nostri risultati non dicono nulla su ciò che accade alle persone che non sono ricoverate in ospedale con COVID, o quelle che sono ospedalizzate ma senza troponina elevata. I risultati indicano i modi potenziali per identificare i pazienti a rischio più alto o più basso e suggeriscono strategie che possono migliorare i risultati. In ogni caso lo studio effettuato attraverso le scansioni di RMN cardiaca hanno dimostrato quanto, questa metodica, sia utile nello studio di pazienti con aumento della troponina. Saranno comunque necessari ulteriori lavori per avere un quadro più realistico della situazione.” Ha concluso la Prof. Fontana.  

In merito ai risultati di questo studio, appare utile sottolineare come al momento non è chiaro se le problematiche cardiache sopra riportate siano da imputare direttamente al virus o se siano l’effetto di una serie di reazioni difensive messe in atto dall’organismo per combattere il virus. In sintesi, si sa che il virus danneggia il cuore, ma non si conoscono i meccanismi che sottendono questo danno, e per questo al momento non si dispone di farmaci mirati in grado di garantire una cardioprotezione più efficace.

Bibliografia essenziale

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