La vexata quaestio dell’iperuricemia e le risposte derivanti dallo studio Urrah

Come è noto, l’iperuricemia e la gotta sono due condizioni ben note, la cui prevalenza è in progressivo incremento in Italia come in Europa (1, 2,3). Responsabile di ciò sarebbero, secondo molti, le cattive abitudini alimentari e le bevande zuccherine (4,5). Di particolare interesse, le donne, un tempo “rare clienti” di questa condizione morbosa, pur costituendo sempre solo circa ¼ della popolazione affetta, stanno progressivamente divenendo più prone allo sviluppo sia di iperuricemia asintomatica, sia di gotta (3). 

   In tale ambito, l’iperuricemia è stata indicata sovente come un determinante di rischio cardiovascolare autonomo, addizionale a quelli tradizionali; nonché come un predittore dell’insorgenza di sindrome metabolica e/o delle sue singole componenti (6,7,8). Pur tra tanti dati controversi, molte evidenze epidemiologiche confermano il legame tra iperucemia – con o senza gotta – e rischio cardiometabolico (6,9,10,11,12,13). L’iperuricemia, infatti, è combinata ad incremento del rischio cardiovascolare in generale (14, 15) e, nel dettaglio, di morte cardiovascolare, ictus cerebri (16), scompenso cardiaco (17), fibrillazione atriale (18), malattia renale cronica (19) e vasculopatia periferica (20). L’iperuricemia, d’altra parte, è predittiva nei confronti dello sviluppo di ipertensione (21), diabete mellito di tipo 2 (22) con o senza altre componenti della sindrome metabolica (23), particolarmente – ma non solo – nel paziente gottoso (24,25,26). 

   Malgrado questa consistente mole di dati a favore del ruolo di acido urico come determinante di rischio cardiovascolare, i detrattori sono moltissimi e l’argomento è ritenuto molto spinoso ed incerto. Questo soprattutto perchè la correlazione tra riduzione del livello di acido urico e riduzione del rischio cardiovascolare è tutt’altro che evidente sia nelle meta-analisi (27), sia negli studi clinici controllati (28,29) oppure di popolazione (30). Malgrado ciò, molto ossigeno alla tesi del ruolo direttamente lesivo di acido urico è stato recentemente portato da due studi clinici controllati, in cui febuxostat – un inibitore selettivo dell’enzima xantino-ossidasi – ha ridotto gli eventi cardiovascolari (31) e renali (32). In particolare, nel Febuxostat versus  Allopurinol Streamlined Trial (FAST) (31) febuxostat ha ridotto il composito di ospedalizzazione per infarto miocardico non fatale o sindrome coronarica acuta con biomarcatori positivi, ictus non fatale o morte cardiovascolare del 15% versus allopurinolo – inibitore non selettivo della xantino-ossidasi – nell’analisi per effettivo trattamento (Febuxostat 1.723 eventi per 100 pazienti-anno, Allopurinolo 2.054 eventi per 100 pazienti-anno, Hazard ratio 0.85, intervallo di confidenza al 95% 0-70–1.03, p per non-inferiorità < 0.0001) e dell’11% nella analisi per intenzione di trattamento (Febuxostat 2.047 eventi per 100 pazienti-anno, Allopurinolo 2.295 eventi per 100 pazienti-anno, Hazard ratio 0.89; intervallo di confidenza al 95% 0.75–1.06, p per non inferiorità <0.0001) in pazienti gottosi >60 anni, già trattati con allopurinolo e con almeno un ulteriore fattore di rischio cardiovascolare. Pur disegnato come studio di non inferiorità, la riduzione dell’obiettivo primario e quella della mortalità per ogni causa (Febuxostat versus Allopurinolo, analisi per effettivo trattamento: Hazard ratio 0.84, intervallo di confidenza al 95% 0.71–1.01, p per non inferiorità <0.0001) supporta il ruolo della terapia ipouricemizzante come ulteriore mezzo per ridurre gli eventi cardiovascolari, almeno nell’iperuricemia sintomatica. In assonanza con il FAST, d’altra parte, nello studio Febuxostat for Cerebral and CaRdiorenovascular Events PrEvEntion StuDy (FREED), condotto  in 1070 anziani (età >65 anni)  iperuricemici (uricemia >7.0 e ≤9.0 mg/dL) ed a rischio per manifestare patologia cerebrovascolare, cardiovascolare e renale a causa della presenza di ipertensione, diabete mellito di tipo 2, malattia renale  (eGFR  da >30  fino a  <60 mL/min/1.73 m2) o storia personale di malattia cerebrovascolare o cardiovascolare (32), la riduzione dell’uricemia fino a 4.50 ± 1.52 mg/dL indotta dal febuxostat ha comportato, in paragone al controllo non-febuxostat (in cui il livello di uricemia indotto dalla terapia era = 6.76 ± 1.45 mg/dL, p < 0.001 versus febuxostat) una significativa riduzione degli eventi renali (Febuxostat: 16.2%, Non-febuxostat: 20.5%; Hazard 0.745, intervallo di confidenza al 95% 0.562–0.987; p = 0.041), definiti come danno renale [comparsa di microalbuminuria (≥30 to <300 mg/g⋅creatinina (Cr))/lieve proteinuria (≥0.15 to <0.50 g/g⋅Cr), progressione ad albuminuria conclamata (≥300 mg/g⋅Cr)/severa proteinuria (≥0.50 g/g⋅Cr), oppure peggioramento di albuminuria conclamata confermato in due valutazioni consecutive dopo l’inizio della terapia; raddoppio della Cr sierica; progressione fino ad insufficienza terminale]. 

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