Italia in pole position nella prevenzione: 90% di riduzione negli atleti sottoposti a screening ma attenzione: l’ECG non deve far dimenticare l’importanza di una accurata anamnesi!!
di Alessandro Biffi*
La morte improvvisa nel giovane sportivo, apparentemente sano, rappresenta un evento drammatico che continua a generare grande sconcerto sia nell’opinione pubblica, sia nella classe medica. Da un lato, infatti, sembra impossibile che un giovane in grado di compiere grandi performance fisiche e che rappresenta il modello ideale della salute, possa essere vittima di un evento così grave. Dall’altro, nonostante lo sforzo di alcuni studiosi, ancora non è stato identificato con certezza il reale rischio di morte improvvisa presente negli atleti che praticano sport competitivo. I recenti episodi di morte improvvisa sul campo del calciatore Piermario Morosini e del pallavolista Vigor Bovolenta, nonché quella del nuotatore olimpionico Dale Oen, hanno rinnovato l’interesse dei media e della classe medica sul problema, suscitando una serie di opinioni, interventi e pareri, talora purtroppo anche di tipo propagandistico, sul come prevenire tali eventi drammatici. Grande interesse è stato posto sul ruolo dello screening medico-sportivo, valutazione mirata alla precoce identificazione di quelle patologie cardiovascolari responsabili della morte improvvisa sul campo e, allo stesso tempo, alla non idoneità degli atleti a rischio, con l’aspettativa che tale strategia possa impedire o, quantomeno, ridurre il fenomeno della morte improvvisa. Attualmente, nei paesi occidentali esiste una grande disomogeneità sul controllo medico degli atleti competitivi, con soltanto alcune nazioni, e tra queste l’Italia è all’avanguardia, che hanno programmato una visita di screening prima della partecipazione agli eventi atletici ufficiali. Poco è conosciuto circa il rischio di morte improvvisa connesso con l’attività fisica in giovani atleti. Corrado ed altri hanno valutato l’incidenza della morte improvvisa della popolazione giovanile atletica e non atletica della regione Veneto ed hanno indicato che l’attività competitiva aumenta di 2.5 volte il rischio di morte improvvisa.
In questo studio, le cause più frequenti di mortalità erano rappresentate da patologie cardiovascolari silenziose, a decorso subclinico, come la cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro e le anomalie congenite delle coronarie. Di conseguenza, l’attività sportiva non era “per sé” una causa della mortalità aumentata: piuttosto, ha agito come “trigger” per l’induzione di aritmie letali su un substrato miocardico preesistente. La valutazione dell’impatto epidemiologico con cui la morte improvvisa si presenta in giovani atleti durante gli sport competitivi organizzati è impedita dalla natura retrospettiva della maggior parte delle analisi. Gli studi meno recenti, infatti, hanno probabilmente sottovalutato il fenomeno perché si sono basati sui rapporti delle diverse scuole ed istituzioni. Per esempio, nel Minnesota (USA), la percentuale di mortalità è stata molto bassa (0.5 per 100.000/anno di atleti delle scuole superiori). Lo studio popolazionale in precedenza citato effettuato nella regione Veneto ha, più correttamente, segnalato un’incidenza di morte improvvisa di 2.3 per 100.000 atleti/anno (2.62 nei maschi e 1.07 nelle femmine). La morte improvvisa da sport mostra una predilezione per il sesso maschile, fino ad un rapporto 10:1. Tale differenza è stata collegata con il più alto tasso di partecipazione dell’atleta maschio agli sport competitivi, così come al carico di allenamento maggiore. Più probabilmente, essa è da ascrivere alla prevalente espressione fenotipica di malattie cardiache a rischio di arresto cardiaco aritmico, quali le cardiomiopatie, le anomalie congenite delle coronarie e le malattie dei canali ionici o canalopatie (sindrome del QT lungo, di Brugada, tachicardia ventricolare catecolaminergica). Negli atleti con età superiore ai 35 anni, la cardiopatia ischemica è la causa di gran lunga più comune di mortalità da sport. Negli USA ed in molti paesi europei, lo screening medico per l’attività sportiva è stato tradizionalmente realizzato solo con l’anamnesi familiare e personale e con l’esame fisico, senza il ricorso all’ECG. Questo metodo di screening è stato suggerito partendo dal presupposto che l’ECG non era redditizio in termini di costi/benefici su grandi popolazioni per la sua relativa bassa specificità. Una tale strategia, tuttavia, ha dimostrato una limitata capacità a rilevare le anomalie cardiovascolari potenzialmente mortali. Infatti, un’analisi retrospettiva statunitense, su atleti dei College deceduti improvvisamente, ha indicato che il sospetto per la presenza di una cardiopatia, utilizzando la storia clinica e l’esame fisico, è stato documentato soltanto nel 3% degli atleti esaminati e meno dell’1% ha ricevuto una diagnosi esatta. L’aggiunta dell’ECG ha il potenziale di aumentare enormemente la sensibilità dello screening, arrivando a rilevare, per esempio, fino al 95% di anomalie ECG nei pazienti con cardiomiopatia ipertrofica. Da oltre 25 anni, l’Italia attua una selezione sistematica dei soggetti praticanti attività sportiva competitiva basata principalmente sull’ECG a riposo e dopo step-test, oltre che sulla storia clinica e l’esame fisico, in base alla legge sulla tutela sanitaria delle attività sportive del 1982. Tale screening viene applicato su una popolazione di circa 6 milioni di persone che rappresenta il 10% della popolazione italiana.
*Istituto di Medicina e Scienza dello Sport del CONI di Roma
Past-President Società Italiana di Cardiologia dello Sport
Articolo pubblicato per gentile concessione dell’autore (n.d.r.)