Prevenzione cardiovascolare e microbiota intestinale
Le linee guida europee sulla Prevenzione delle Malattie Cardiovascolari nella pratica clinica, danno grande valore all’intervento accurato sulla salute della popolazione e rappresentano una indicazione al controllo sulla salute globale, a livello mondiale.
Tali linee guida riferiscono nella loro premessa che “La prevenzione cardiovascolare (CV) viene definita come una serie di azioni coordinate intraprese a livello di popolazione e individuale, volte ad eliminare o ridurre al minimo l’impatto delle malattie cardiovascolari (MCV) e delle relative disabilità” (1,2). Nonostante i miglioramenti degli esiti, le MCV rappresentano tuttora la principale causa di morbilità e mortalità. A partire dagli anni ’80, specie nei paesi sviluppati, si è registrata una diminuzione della mortalità aggiustata per malattia coronarica (CAD) e, grazie all’adozione di misure preventive quali la legislazione anti-fumo, l’incidenza di CAD si è più che dimezzata in molti paesi europei. Tuttavia, sussistono ancora delle differenze tra i vari paesi, a fronte anche di un aumento consistente di numerosi fattori di rischio, in particolare l’obesità(3) e il diabete mellito (DM)(4). Se gli interventi di prevenzione fossero stati attuati secondo quanto raccomandato, questo avrebbe comportato una sostanziale riduzione della prevalenza delle MCV; pertanto, parallelamente ai principali fattori di rischio, anche la scarsa implementazione delle misure preventive costituisce un motivo di preoccupazione(5,6). La prevenzione deve essere promossa a livello della popolazione generale incoraggiando l’adozione di uno stile di vita sano(7) ed a livello individuale .Vale a dire intervenendo su quei soggetti con un rischio CV moderato-alto o con CAD accertata, correggendo sia gli stili di vita poco salutari (es. inappropriata alimentazione, inattività fisica, fumo) sia i fattori di rischio. Gli interventi preventivi sono efficaci, tanto che l’eliminazione dei comportamenti che mettono a rischio la salute consentirebbe di prevenire almeno l’80% delle MCV e persino il 40% dei tumori (8,9).
Negli ultimi 30 anni, oltre la metà della riduzione della mortalità CV è stata determinata dai cambiamenti nei livelli dei fattori di rischio nella popolazione, in particolare una diminuzione della colesterolemia, dei valori pressori e dell’abitudine al fumo. Questo trend favorevole è controbilanciato in parte da un incremento di altri fattori di rischio, in particolare obesità e DM di tipo 2. Diversi interventi effettuati a livello di popolazione si sono rivelati efficaci nell’indurre l’adozione di stili di vita più salutari. Ad esempio, una maggiore consapevolezza di come uno stile di vita sano possa prevenire l’insorgenza di MCV ha contribuito a ridurre l’abitudine al fumo ed i livelli di colesterolemia. Gli interventi sullo stile di vita agiscono su diversi fattori di rischio CV e devono essere attuati prima dell’avvio della terapia medica o congiuntamente ad essa.
Negli ultimi anni, le linee guida internazionali per la prevenzione della malattia cardiovascolare in generale si sono orientate alla valutazione non solo dell’entità del singolo fattore di rischio (valore assoluto di pressione arteriosa, colesterolemia, ecc.) ma soprattutto alla valutazione del rischio cardiovascolare globale. Questo e’ legato alla contemporanea presenza di più fattori di rischio che meglio definiscono la probabilità che un singolo individuo ha di sviluppare un evento cardiovascolare maggiore nell’arco, in genere, di 5-10 anni.
Il target fondamentale della prevenzione cardiovascolare globale fa riferimento, in particolare, alla prevenzione/riduzione dell’Aterosclerosi come fattore determinante del danno vascolare, che successivamente genera le problematiche cardiovascolari. In questo contesto, gli elementi preventivi basilari si rivolgono verso il controllo di quei parametri quasi tutti considerati all’interno della Sindrome Metabolica. Questa è una condizione presente nel 20-25% della popolazione generale ,caratterizzata da obesità viscerale, dislipidemia, alterazioni del metabolismo glucidico ed ipertensione arteriosa.
La Sindrome Metabolica
Rifacendoci ad un report di De Luca e Coll. ( Medicinae Doctor – Anno XXIV numero 2 – marzo 2017,pagg.42-44) possiamo dire che la sindrome metabolica è un insieme di alterazioni con una principale conseguenza: un marcato aumento delle malattie cardiovascolari. A partire dalla sua descrizione iniziale come “sindrome dell’obesità androide” da parte di Vague nel 1956, la sindrome ha assunto diversi nomi, comprendenti “sindrome dell’ipertensione dislipidemica” (Williams nel 1988), “sindrome X” (Reaven nel 1988), “sindrome da insulinoresistenza” (De Fronzo nel 1991), “sindrome dismetabolica” (OMS nel 1998) e “sindrome plurimetabolica” (Muggeo, 2001). Risale sempre al 2001 la definizione formulata dall’Adult Treatment Panel III (ATP III) del National Cholesterol Education Program (NCEP), secondo la quale la diagnosi viene posta quando sono presenti 3 o più di 3 dei seguenti fattori di rischio: circonferenza dei fianchi negli uomini >102 cm e nelle donne >88 cm, trigliceridemia >150 mg/dl, HDL-C negli uomini <40 mg/dl e nelle donne <50 mg/dl, pressione arteriosa >130/85 mmHg, glicemia a digiuno > 110 mg/dl.(10).
La principale conseguenza della sindrome metabolica sono le patologie cardiovascolari aterosclerotiche, e diverse componenti della sindrome rappresentano noti fattori di rischio per lo sviluppo di aterosclerosi. Una maggiore conoscenza della diagnosi di sindrome metabolica porterà presumibilmente in futuro all’identificazione di fattori di rischio addizionali e, a sua volta, ad una migliore identificazione dei pazienti ad alto rischio.
I più recenti criteri per la diagnosi di sindrome metabolica sono stati proposti dall’International Diabetes Federation (IDF) nel 2009 e richiedono la presenza di obesità addominale ,che viene definita con diversi cut-off di circonferenza addominale a seconda dell’etnia di appartenenza (per gli europei: >94 cm nei maschi e >80 cm nelle femmine) e la presenza di almeno due tra i seguenti criteri: trigliceridi >150 mg/dl, colesterolemia HDL <40 mg/dl nei maschi e <50 mg/dl nelle femmine o terapia ipolipemizzante, pressione arteriosa >130/85 mmHg o terapia antiipertensiva, glicemia a digiuno >100 mg/dl o pregressa diagnosi di diabete mellito tipo 2. La circonferenza addominale, criterio chiave in entrambe le definizioni, è predittiva di rischio cardiovascolare: ogni 5 cm di incremento si associa, infatti, a un aumento dell’11.9% del rischio di decesso per malattia cardiovascolare (11).
L’Obesita’: Una nuova Epidemia
Da un report di Modesti e Bazzini ,pubblicato su Internal and Emergency Medicine (num.3/07) si evidenzia che negli USA il 66% degli adulti sono sovrappeso od obesi con aumenti allarmanti negli ultimi 30 anni. L’aumento annuale di prevalenza va dallo 0,3% allo 0,9% nei vari gruppi e per il 2015 era attesa una prevalenza di sovrappeso del 75% e di obesità del 41%. Le minoranze etniche e i gruppi appartenenti ai più bassi strati socio economici sono i più colpiti. In Italia secondo i dati dell’Osservatorio Epidemiologico Cardiovascolare Italiano ,ancora nel 2014 (12), il 50% degli uomini e il 34% delle donne erano in sovrappeso con percentuali di obesità rispettivamente del 18% e del 22%. Il dato più allarmante è il continuo aumento della prevalenza dell’obesità infantile. La prevalenza di obesità è in continuo aumento non solo nei Paesi sviluppati, ma anche nei Paesi in via di sviluppo.

L’Asia è considerata l’epicentro di questa epidemia mondiale (13). Senza dubbio la rapida crescita che si è avuta in Asia in questi anni è stata legata ai cambiamenti socio- economici. Nella Corea del Sud il prodotto interno lordo è aumentato di 17 volte dal 1962 al 1996 (14). Durante questo periodo la presenza di fibre vegetali nella dieta è scesa dal 97% al 79%, mentre il consumo di carne è aumentato di 7 volte. Così anche il consumo di grassi è salito dal 6% al 18,8%. Dati simili si sono registrati anche in Giappone. La progressiva urbanizzazione e il miglioramento delle condizioni di vita non sembrano però sufficienti a giustificare questa epidemia asiatica che è probabilmente legata anche a fattori genetici. Infatti, se consideriamo la relazione tra diabete e obesità, nei Paesi asiatici in via di sviluppo emergono alcune discordanze. Anche se la prevalenza di diabete in Asia è in continuo aumento, i cambiamenti sono diversi da paese a paese. L’India ha la prevalenza di diabete più alta (12,1%) tra tutti i paesi asiatici, seguita dalla Cina. Questi paesi probabilmente manterranno il primato anche oltre il 2025, anno in cui le attuali stime di crescita indicano che in ciascuno dei due paesi saranno raggiunti i 20 milioni di individui diabetici
L’obesita’ addominale rappresenta il marker fondamentale per un aumento del rischio cardiovascolare nella popolazione. In particolare i dati ricavati dagli studi sulle popolazioni asiatiche avevano mostrato una maggiore associazione tra obesità addominale e sviluppo di diabete. Il grasso viscerale, che si accumula nell’interno dell’addome, sembra rappresentare anche un indice di rischio più importante rispetto al grasso che si accumula a livello sottocutaneo per lo sviluppo di complicanze cardiovascolari. Uno studio condotto su soggetti che avevano avuto un infarto miocardico in 52 paesi diversi (15) ha messo in evidenza che anche se il BMI è un indice facile da calcolare, l’associazione tra aumento del rapporto tra circonferenza a livello addominale e circonferenza a livello dell’anca, è collegata a un aumento del rischio di ricovero per infarto miocardico di circa 3 volte più alto rispetto a quello del BMI (16). Quindi la circonferenza addominale, e non il BMI, dovrebbe essere considerata nel calcolo del rischio cardiovascolare. Il giro vita è stato infatti incluso nelle definizioni di sindrome metabolica ed è considerato un indice più fedele della presenza di grasso viscerale. Per una misurazione ottimale della circonferenza vita, questa deve essere effettuata in corrispondenza del punto intermedio tra il margine inferiore dell’ultima costa e la cresta iliaca antero-superiore con il soggetto in posizione eretta. I valori di riferimento definiti dall’OMS sono quelli maggiormente applicati in Europa che sono articolati su due livelli:
- una circonferenza vita ≥94 cm per gli uomini e ≥80 cm per le donne definisce il valore soglia oltre il quale occorre evitare ulteriori incrementi ponderali,
- una circonferenza vita ≥102 cm per gli uomini e ≥88 cm per le donne definisce il valore soglia per il quale occorre raccomandare una riduzione di peso. Questi valori sono stati calcolati con riferimento all’etnia caucasica e, pertanto, per altri gruppi razziali ed etnici è necessario applicare differenti cut-off per le misure antropometriche.
A parità di BMI un aumento del grasso viscerale si associa a un maggiore flusso di acidi grassi al fegato attraverso la circolazione portale mentre un aumento del grasso sottocutaneo rilascerebbe gli acidi grassi nella circolazione sistemica con un effetto meno diretto sul metabolismo epatico. Tuttavia ,nonostante queste autorevoli accettazioni delle evidenze sul ruolo dell’obesità addominale come marker di rischio cardiovascolare, così come del resto riguardo all’evidenza del ruolo prognostico della microalbuminuria sul rischio cardiovascolare, la pratica clinica non si è ancora adeguata.
Ipercolesterolemia e Controllo dei valori lipidici
Sempre traendo spunto dalle Linee Guida Europee sulla Prevenzione delle Malattie Cardiovascolari nella pratica clinica, si rileva che I lipidi, come ad esempio il colesterolo ed i trigliceridi, circolano nel plasma sanguigno sotto forma di lipoproteine legate a diverse proteine (le apolipoproteine). Le principali lipoproteine deputate al trasporto del colesterolo nel plasma (le LDL) hanno proprietà pro-aterogene. Attualmente, il ruolo esercitato dalle lipoproteine ricche in trigliceridi è ancora oggetto di studio: i chilomicroni e le lipoproteine a densità molto bassa (VLDL) di grandi dimensioni non sembrano esplicare un’azione pro- aterogena, ma elevate concentrazioni di queste lipoproteine ricche in trigliceridi possono aumentare il rischio di pancreatite. In studi condotti secondo il principio della randomizzazione mendeliana, le lipoproteine “remnant” [colesterolo totale – (C-LDL + C- HDL)] sono risultate dotate di effetti pro-aterogeni.
È ormai inconfutabile che la riduzione dei livelli plasmatici di C-LDL si accompagni ad una riduzione del rischio CV ed i risultati di studi epidemiologici, nonché di trial randomizzati condotti con statine, con endpoint clinici ed angiografici, hanno confermato che la riduzione del C-LDL deve costituire l’obiettivo primario nella prevenzione delle MCV(17). Nelle metanalisi di numerosi studi con statine è stata evidenziata una riduzione dose- dipendente del rischio relativo di eventi CV al decrescere dei livelli di C-LDL. Ad ogni decremento dei livelli di C-LDL di 1.0 mmol/l (38.6 mg/dl) corrisponde una riduzione della mortalità CV e del rischio di IM non fatale del 20-25%.
Il C-LDL può essere misurato direttamente, ma nella maggior parte degli studi ed in molti laboratori viene calcolato mediante la formula di Friedewald: – in mmol/l: C-LDL = colesterolo totale – C-HDL – (0.45 x trigliceridi) – in mg/dl: C-LDL = colesterolo totale – C- HDL – (0.2 x trigliceridi) La formula di Friedewald può essere applicata unicamente in assenza di ipertrigliceridemia (<4.5 mmol/l o <~400 mg/dl) o di ipocolesterolemia (C-LDL <~1.3 mmol/l o <50 mg/dl) in quanto il rapporto trigliceridi/colesterolo totale nelle VLDL e nei chilomicroni (ricchi in trigliceridi) aumenta progressivamente, con l’aumentare dei livelli di trigliceridi. I metodi diretti possono rivelarsi meno sensibili nella determinazione dei livelli plasmatici di trigliceridi e alcuni dati recenti dimostrano che possono generare misurazioni poco attendibili in presenza di ipertrigliceridemia. Inoltre, i valori ottenuti con diversi metodi diretti non sono necessariamente perfettamente uguali, in particolar modo in riferimento ad elevati o ridotti livelli di C-LDL.
Teoricamente, la definizione degli obiettivi terapeutici richiederebbe la randomizzazione dei pazienti secondo differenti obiettivi lipidici, ma di fatto la maggior parte delle evidenze derivano da studi osservazionali o analisi post-hoc di RCT (e quindi da analisi di meta- regressione) nei quali i pazienti sono stati randomizzati a diverse strategie di trattamento (anziché a differenti obiettivi terapeutici). Pertanto, le raccomandazioni riflettono il consenso basato sui dati epidemiologici di ampi studi e sugli RCT che hanno messo a confronto diversi regimi di trattamento piuttosto che diversi obiettivi lipidici. In passato, il valore soglia e l’obiettivo terapeutico per il C-LDL era definito da livelli pari a 2.6 mmol/l (100 mg/dl); tale target è tuttora considerato ragionevole nella maggior parte dei pazienti nei quali viene posta indicazione alla terapia ipolipemizzante sulla base della stima del rischio CV. Le evidenze derivate dai trial indicano che una riduzione del C-LDL a valori ≤1.8 mmol/l (<70 mg/dl) si associa ad un minor rischio di eventi CV ricorrenti(18).
Pertanto, livelli di C-LDL pari a 1.8 mmol/l (70 mg/dl) sembrano un obiettivo ragionevole non solo per prevenire le recidive di eventi CV ma anche in altre categorie di pazienti ad altissimo rischio. A fronte di valori basali compresi tra 1.8 e 3.5 mmol/l (70-135 mg/dl), quale obiettivo terapeutico si raccomanda anche una riduzione del C-LDL di almeno il 50%.
Il Microbiota Intestinale
Da un editoriale molto interessante pubblicato da V.Gerardi e Coll.(G Ital Cardiol 2016;17(1):11-14) a proposito del rapporto tra Microbiota Intestinale e patologie Cardiovascolari si segnala quanto segue:
Il microbiota intestinale è formato da numerose popolazioni microbiche: batteri, miceti, batteriofagi e virus, oggi definiti “mutualisti”. Attraverso un’associazione sinergica con l’apparato digerente, il microbiota intestinale lo controlla e costituisce un ecosistema di fondamentale importanza per la vita dell’uomo. I batteri che compongono il microbiota intestinale sono più di mille specie, con un peso complessivo di circa 1.5 kg e più di 15 000 ceppi differenti. Il 70-90% sono anaerobi obbligati (Gram-positivi, come Clostridium e Bifidobacterium, e Gramnegativi, come Bacteroides) detti anche “estremofili” perché la loro crescita in coltura necessita di tecniche microbiologiche sofisticate. La flora batterica intestinale umana, pur essendo costituita da un grandissimo numero di ceppi diversi, può essere distinta in tre grandi generi, ossia Bacteroides, Prevotella e Ruminococcus.
La colonizzazione microbica comincia immediatamente dopo la nascita e, in seguito, la composizione del microbiota si modifica influenzata da fattori come il genotipo, il sesso, l’età, lo stato di maturazione immunitaria e i vari fattori ambientali. Complessivamente, il microbiota è caratterizzato da una flora endogena (che rimane stabile per tutta la vita) e da una transitoria. L’intestino rappresenta infatti uno degli organi a maggior contatto con differenti agenti esogeni (batteri, virus, allergeni), costituendo la prima barriera difensiva nei confronti di microrganismi patogeni che possono aggredire l’organismo. La composizione del microbiota intestinale nella prima età infantile, è molto importante per la cosiddetta “educazione immunologica” dell’individuo: una carente esposizione dei bambini piccoli ai Bifidobacterium e/o l’eliminazione dei bifidobatteri dall’intestino (conseguente ad antibioticoterapia) può determinare una maturazione “sbilanciata” del sistema immunitario,.
Il microbiota intestinale ha molte importanti funzioni per il mantenimento dello stato di salute dell’ospite: è implicato nella funzione di “barriera”, in quella immunologica, in quella metabolica e nel condizionamento del comportamento. Tra il microbiota intestinale e l’ospite esiste un delicato equilibrio, mantenuto tramite vari meccanismi che se vengono alterati, possono determinare la comparsa di malattie gastrointestinali o extra- intestinali(19).
Nel 2004 il gruppo di ricerca di Jeffrey Gordon (Washington University, USA) ha evidenziato una possibile relazione tra la composizione del microbiota intestinale e l’obesità, focalizzando l’attenzione sulle proporzioni delle due principali divisioni batteriche componenti il microbiota: i Firmicutes e i Bacteroidetes; emergeva una prevalenza dei primi rispetto ai secondi nel soggetto obeso, ed in particolare delle Prevotellaceae(19,20). I phyla più rappresentativi sono Firmicutes e Actinobacteria, tra i gram positivi, e Bacteroidetes e Proteobacteria tra i gram negativi.
La colonizzazione di topi “germ-free” con una flora batterica di derivazione obesa, determina un aumento del grasso totale pari al 60% in più rispetto a topi colonizzati con la flora batterica di un topo normopeso, dimostrando che questo fenotipo obeso è trasmissibile. L’aumento di tessuto adiposo, inoltre, si verifica indipendentemente dalla quantità di flora batterica acquisita o dalla diminuzione nel dispendio energetico(21).
Di notevole interesse è il ruolo obbligato del microbiota nella produzione di trimetilamina- N-ossido (TMAO) a partire da carnitina e fosfatidilcolina assunte con la dieta, come osservato in diversi studi su modelli murini e su individui affetti da patologia cardiovascolare. Tali studi(22-23) hanno dimostrato che la produzione di TMAO dopo “challenge” con dosi orali di carnitina e/o colina è strettamente dipendente dal microbiota, essendo fortemente ridotta a seguito di un recente ciclo di terapia antibiotica ad ampio spettro. Da notare che la produzione di TMAO, dopo carico di carnitina, si è rivelata significativamente più elevata negli individui onnivori rispetto ad una popolazione vegetariana/vegana nello studio di Koeth et al.(24). La progressione dell’aterosclerosi promossa da TMAO è ascrivibile a multiple interferenze nel metabolismo del colesterolo, ad esempio a livello del trasporto inverso e della clearance biliare. Sul piano clinico, un elevato livello sierico di TMAO si è dimostrato un fattore di rischio indipendente di prevalenza ed incidenza di patologia cardiovascolare nell’arco di un follow-up di 3 anni in un’ampia coorte di pazienti. Parimenti, un elevato livello sierico di TMAO si è confermato un valido fattore prognostico di mortalità a 5 anni in una coorte di oltre 700 pazienti con scompenso cardiaco su base ischemica e non ischemica(25).
Microbiota Intestinale ed Aterosclerosi
La composizione del microbiota intestinale è stata oggetto di intensi studi di metagenomica, che hanno permesso di caratterizzare qualitativamente e quantitativamente la popolazione microbica (26).
Complessivamente è stato stimato un numero di oltre 35000 specie batteriche colonizzanti l’intestino umano . Qualitativamente, esiste un ampio “core” di specie microbiche largamente condiviso dalla popolazione «normale». I phyla più rappresentativi sono Firmicutes e Actinobacteria, tra i gram positivi, e Bacteroidetes e Proteobacteria tra i gram negativi. Uno studio recente ha chiarito la relazione tra ricchezza del microbiota e stato di salute/malattia, associando un’alta conta batterica ad una minor prevalenza di patologie metaboliche e, viceversa, una ridotta variabilità di specie ad una maggior incidenza di malattie infiammatorie. Questa osservazione sembra legarsi alla presenza, nel primo caso, di batteri con funzioni protettive (maggior produzione di butirrato e idrogeno, ridotta produzione di solfuro d’idrogeno), nel secondo con attività pro infiammatoria (degradazione di amino acidi aromatici e beta glucuronide) (26).
Il ruolo di microorganismi nell’eziologia dell’aterosclerosi è noto dalla prima metà del XIX secolo, quando si individuò la presenza di agenti patogeni nella placca aterosclerotica. Tra questi: Helicobacter pylori, Chlamydia pneumoniae, Porphyromonas gingivalis, Aggregatibacter actinomycetemcomitans, Hepatitis A virus e Herpes virus. I meccanismi attraverso cui tali microorganismi sarebbero in grado di promuovere lo sviluppo di aterosclerosi sono molteplici e coinvolgono sia aspetti infiammatori (aumentata secrezione di citochine, attivazione degli inflammasomi, riduzione della paraossonasi), sia del metabolismo lipidico (aumento foam cells) (26).
Diversi studi già in passato avevano messo in evidenza alcuni meccanismi patologici potenzialmente influenzati dal microbiota intestinale e coinvolti nella malattia cardiovascolare. Parte di questi sono tuttora in fase di studio e riguardano l’analisi della produzione di metaboliti batterici in grado di influenzare il metabolismo dell’ospite, l’assimilazione dei nutrienti e la stimolazione del sistema immune.
Un recente lavoro pubblicato sulla rivista Nature Communications dal gruppo cinese di Jie e colleghi(27), il primo studio caso-controllo di queste dimensioni, rivela lo stretto legame tra la composizione del microbiota intestinale e l’aterosclerosi. La pubblicazione infatti evidenzia la differente popolazione batterica nel lume dell’intestino di pazienti affetti da malattie cardiovascolari paragonati a soggetti sani. Il sequenziamento metagenomico del microbioma rilevato nelle feci di circa 400 individui (218 pazienti e 187 controllo) harilevato i principali ceppi batterici presenti nei due casi. L’analisi ha riportato l’abbondanza di microrganismi Enterobacteriaceae inclusi Escherichia coli, Klebsiella spp.,
e Enterobacter aerogenes nei pazienti, così come di Ruminococcus gnavus, un batterio già precedentemente associato alle malattie infiammatorie intestinali. Inoltre nei soggetti affetti, è risultato esserci una ridotta variabilità batterica con la minore presenza di organismi comuni quali Bacteroides spp., Prevotella copri, e Alistipes shahii rispetto ad individui sani.
La diversità nella composizione batterica si traduce in una notevole differenza funzionale: il microbiota dei pazienti mostra uno shift verso batteri che sostengono il trasporto di zuccheri semplici e aminoacidi, mentre risulta ridotto il contributo associato alla biosintesi delle vitamine. Come da attendersi, dato il ruolo dei folati nella patologia aterosclerotica, il metabolismo dell’omocisteina risulta alterato, così come quello dei glicerolipidi e della sintesi degli acidi grassi. Un fattore di rischio dimostrato anche nei modelli animali è il metabolita trimetilamina (TMA) processato dal microbiota a partire da colina e carnitina assunte con la dieta e ossidato dal fegato ad ossido di trimetilamina (TMAO). Nei pazienti esaminati è stato riportato un arricchimento di batteri codificanti TMA liasi (l’enzima necessario alla produzione) rispetto ai soggetti sani.
Nonostante i limiti associati a questo genere di indagine, come la difficoltà nel considerare altri co-fattori nell’insorgenza e nella progressione della patologia, lo studio evidenzia la sovrapponibilità della composizione del microbiota tra individui affetti da altre patologie cardio-metaboliche come il diabete di tipo 2, l’obesità e la cirrosi epatica. Questo, seppur non direttamente legato come fattore eziologico della malattia cardiovascolare, può rappresentare uno strumento prognostico e diagnostico dello status cardiaco in salute e in associazione a trattamenti farmacologici o terapeutici. Inoltre, la pratica clinica potrebbe giovare di questa causalità non solo prevedendo la prescrizione di una dieta microbiota– specifica per ogni individuo, ma anche cercando di alterare in maniera favorevole per il paziente, la popolazione batterica intestinale con farmaci mirati. Tutti elementi da non sottovalutare considerata la complessità della patologia, nella quale contribuiscono non solo i fattori genetici ma anche quelli ambientali e lo stile di vita.
In conclusione i meccanismi attraverso cui il microbiota ha un effetto sull’aterosclerosi potrebbero essere distinti in diretti e indiretti. Tra i primi consideriamo la capacità metabolizzante del microbiota intestinale, attraverso cui si originano sostanze che esercitano effetti pro o antiaterosclerotici. Gli effetti indiretti sono invece quelli che dipendono dalla capacità del microbiota intestinale di modulare dei fattori di rischio per l’aterosclerosi, quali l’obesità, il diabete e la dislipidemia (26).
Microbiota Intestinale e Rischio Cardiovascolare
Elevate concentrazioni nel sangue di metaboliti del microbiota intestinale, in particolare la trimetilammina-N-ossido (TMAO) e i suoi precursori, sarebbero legate a un aumento del rischio cardiovascolare correlato a eventi avversi cardiovascolari maggiori e a un aumento del rischio di mortalità. La trimetilammina-N-ossido è un composto organico derivante principalmente dalla colina (presente nella carne rossa, nel pesce, nel pollame e nelle uova).Quest’ultima è metabolizzata dai batteri del microbioma intestinale in trimetilammina(TMA) che, a sua volta, viene assorbita nel sangue e ossidata in TMAO dall’enzima mono- ossigenasi contenente flavina presente nel fegato.(Fig.1)
La TMAO modula il metabolismo di colesterolo e steroli inducendo infiammazione a livello delle cellule endoteliali aortiche, contribuendo a incrementare, seppur in parte, il rischio di malattie cardiovascolari. Dalla revisione sistematica emerge che il rischio relativo (RR) complessivo di sviluppare un evento avverso cardiovascolare maggiore nei soggetti con elevati livelli di TMAO, in confronto agli individui in cui è stata rilevata una limitata presenza della molecola, è pari a 1,62. La meta-analisi dei dati provenienti dagli studiprospettici ha fornito stime complessive quantitative dell’associazione tra i livelli di trimetilammina-N-ossido e dei suoi precursori nel sangue e l’incidenza di eventi avversi cardiovascolari maggiori e di mortalità. Proprio per questi motivi è fondamentale tenere conto del microbiota intestinale come un organo endocrino in grado di svolgere un ruolo fondamentale nella regolazione della funzione cardiometabolica: è attraverso esso, infatti, che vengono modulati i livelli di metaboliti bioattivi nel sangue.
Senza dimenticare il fatto che l’ambiente microbico è influenzato da diversi fattori ambientali: la dieta, per esempio, può alterare la composizione batterica, modificando i livelli di TMAO e dei suoi precursori e impattando sulla probabilità che si verifichino eventi avversi cardiovascolari maggiori, nonché sul rischio di mortalità.(G.Dioretico-Microbioma.it)




Asse Microbioma-Intestino-Cervello
Il secondo cervello o sistema nervoso enterico è a tutti gli effetti un sito indipendente di integrazione ed elaborazione neurale. È dotato, infatti, di una fitta rete nervosa – si stima che nelle pareti interne del tratto gastrointestinale sia presente un numero di neuroni pari a circa cento milioni – ed il ruolo che svolge è in gran parte indipendente dal sistema nervoso centrale, a cui è strettamente collegato dal sistema nervoso autonomo, ma da cui non dipende per il suo funzionamento. (28)




Il secondo cervello comunica con il sistema nervoso centrale. E questa comunicazione, all’interno dell’asse intestino-cervello (gut-brain axis), è bidirezionale, anche se si ritiene che siano di più i messaggi che partono dall’intestino e raggiungono il sistema nervoso centrale che viceversa. Il secondo cervello può, infatti, inviare segnali di nausea, di malessere, può accumulare stress, emozionarsi e può aiutare a fissare ricordi legati al cibo. Inoltre, è in grado di prendere decisioni autonomamente: inconsapevolmente, quando viene allentato il controllo razionale, si attiva quello viscerale che può prendere il sopravvento ed “imporre” la sua decisione. Le cellule di entrambi i cervelli parlano la stessa lingua chimica, usano gli stessi mediatori. Ad esempio, la serotonina, un neurotrasmettitore che nel cervello svolge diverse funzioni e, tra queste, ricopre un ruolo importante nella regolazione dell’umore, viene prodotta per il 95% dalle cellule enterocromaffini distribuite lungo la mucosa intestinale (29). L’intestino viene considerato il fulcro e il simbolo del benessere: salute, malattia e invecchiamento sono in stretta relazione con il suo stato. L’epitelio intestinale rappresenta la più ampia interfaccia dell’intero organismo con il mondo esterno ed è dotato di potenti e sofisticati meccanismi per facilitare l’assorbimento di nutrienti e bloccare l’ingresso di sostanze potenzialmente nocive. Ma vi è di più: all’interno dell’intestino co-esiste un altro organo: il microbiota intestinale che è in grado di codificare determinate funzioni che si ritiene possano avere un impatto sulla fisiologia umana e sulle condizioni di salute dell’ospite.
Il rapporto simbiotico che questo ecosistema microbico instaura con l’ospite permette un vantaggio reciproco: l’organismo umano fornisce substrati nutritivi alla propria microflora batterica e in cambio, la comunità di batteri, a seconda del ceppo di appartenenza, scompone ed elabora residui alimentari diversi (fermentazione di fibre e degradazione di composti proteici).Inoltre produce sostanze come gli acidi grassi a catena corta (short chain fatty acids – SCFA), che sono la principale fonte di nutrimento per le cellule del colon; alcune specie producono vitamine, possono scomporre farmaci e composti cancerogeni, possono contrastare la proliferazione di batteri patogeni. Una funzione estremamente importante svolta dalla popolazione batterica è quella di contribuire allo sviluppo e alla maturazione del sistema immunitario tenendolo in costante allenamento.
Il microbiota, se in equilibrio, e quindi in eubiosi, contribuisce ad un sano funzionamento dell’intestino, rappresentando una risorsa preziosa che influenza la struttura del sistema immunitario gastrointestinale. La risposta immunitaria della mucosa intestinale richiede, infatti, un controllo specifico ed una elevata capacità immuno sensitiva per poter distinguere i batteri commensali (che vivono e si moltiplicano a contatto con l’ospite senza danneggiarlo, anzi spesso garantendo un rapporto di reciproco beneficio) da quelli patogeni. In caso di disbiosi, invece, si determina un’alterazione qualitativa e quantitativa della microflora intestinale in termini di componenti e funzioni.Condizione questa, che può gettare le basi per lo sviluppo di diverse patologie, comprese le infiammazioni croniche intestinali. L’ecosistema microbico, oltre a variare a livello quali-quantitativo a seconda delle zone del tratto intestinale considerato, si modifica in relazione allo sviluppo, all’età ed all’influenza dei fattori ambientali, quali: le abitudini alimentari scorrette, lo stress cronico e l’abuso di antibiotici. Queste ultime vengono considerate le principali cause di disbiosi.
Finora la maggior parte degli studi sull’asse microbiota-intestino-cervello sono stati condotti su animali germ-free, o esposti a infezioni batteriche, agenti probiotici o antibiotici. I risultati di questi studi suggeriscono un ruolo per il microbiota nell’influenzare funzioni cognitive, nella regolazione dell’umore, ma anche nel produrre infiammazione e patologie quali l’obesità. Tra gli strumenti nutrizionali che possono modulare la composizione e le funzioni del microbiota intestinale, a scopi terapeutici, vengono inclusi cambiamenti nei regimi alimentari e trattamenti con probiotici e prebiotici (30).
In sintesi, il microbiota intestinale può esercitare la sua influenza sul bilancio energetico dell’ospite, sulle funzioni metaboliche, immunitarie ed infiammatorie mediante diverse vie. Il microbiota può incidere su sovrappeso ed obesità, ma può avere anche un impatto sull’umore e sul buon funzionamento del cervello e l’epitelio intestinale risulta essere l’interfaccia tra ambiente, microbiota ed organismo nel suo insieme svolgendo un ruolo sostanziale in tutti questi processi.
Microbiota Intestinale e Dieta
La dieta è il principale fattore che influenza il microbiota intestinale. Quella occidentale in particolare ha mostrato di ridurre la diversità batterica in quanto povera di fibre. Il legame tra composizione del microbiota, riduzione dell’apporto di fibre e aumento di peso non è stato tuttavia ancora del tutto compreso. È quanto dimostra lo studio di Dimitrios N. Sidiropoulos e colleghi della University of Minnesota (USA) pubblicato recentemente su Animal Microbiome (31).
Dopo aver collezionato campioni fecali da scimmie selvatiche (WD, n=4) o in cattività (CD, n=2) e averlo trapiantato in modelli murini germ-free (n=32), i ricercatori hanno alimentato questi ultimi con una dieta ad alto o scarso contenuto di fibre per 50 giorni. Incrociando dieta e donatore sono stati quindi ottenuti 4 gruppi di studio ossia “cattività-molte fibre” (CH), “cattività-poche fibre” (CL), “selvatico-molte fibre” (WH) e “selvatico-poche fibre” (WL).Fig.2.
Il gruppo WH non ha registrato un significativo aumento di peso al termine dello studio rispetto alla condizione di partenza prima del trapianto. Di contro, il gruppo CL ha mostrato l’aumento ponderale più consistente. L’analisi statistica ha inoltre sottolineato come il trapianto e quindi il microbiota, più che la dieta, sia il fattore più impattante sul peso. La ricchezza batterica si è in genere ridotta nel tempo, eccetto che per il gruppo WH nel quale ha mantenuto livelli costanti indipendentemente dal donatore. I gruppi con ridotto apporto di fibre (WL e CL) hanno registrato la maggiore alpha-diversity, conta di OTUs e specie batteriche rispetto alla controparte CH e WH. Ogni gruppo ha mostrato nette differenze (cluster) in termini di beta-diversity per la maggior parte imputabili al donatore che alla dieta ,confrontando il microbiota dei donatori e riceventi. Analogie sono state dimostrate solo tra i donatori in cattività e i rispettivi riceventi nonostante la procedura di trapianto sia stata la stessa per tutti. I riceventi da donatori in cattività hanno infatti mostrato una maggiore abbondanza relativa di Bacteroidetes, quelli da donatori selvatici invece di Firmicutes con conseguente maggiore rapporto anche di Firmicutes:Bacteroidetes. Il gruppo WH ha registrato infatti un’abbondanza significativamente maggiore di Coprococcus, Clostridium, SMB53, Bacillus e Actinotalea ; quello WL di Caloramator e Paenibacillus ; CH di Akkermansia e Turicibacter; CL infine di Bacteroides, Desulfovibrio e Roseburia . Enterococcus e Lactococcus hanno invece mostrato una espressione più elevata nei gruppi con maggior apporto di fibre indipendentemente dal microbiota dei donatori.Il gruppo WH ha mostrato una certa stabilità tassonomica nel tempo (1° vs sesta settimana). Di contro, WL ha dimostrato un incremento di Coprococcus (p = 0.003) associato a un decremento di Enterococcus (p = 0.004), Epulopiscium (p =0.008), Lactococcus (p = 0.007), Clostridium (p = 0.001, FDR adjusted) e Paenibacillus (p = 0.016); il gruppo CH ha invece mostrato un aumento di Turicibacter (p = 3.48e-07) e una diminuzione di Coprococcus (p = 0.004). Il genere Desulfovibrio (p = 0.002) è infine risultato aumentato nel gruppo CL, diminuzione invece di Pseudoramibacter Eubacterium (p = 0.0002).
Alle fluttuazioni ponderali e di microbiota, i ricercatori hanno associato il monitoraggio delle citochine sieriche per valutare l’eventuale contributo dello stato infiammatorio. Cosi’ hanno dimostrato che il gruppo WH ha livelli di citochine significativamente maggiori rispetto al gruppo CH, IL-9, IL-12(P40), IL-13, MCP-1, MIP-1B, MKC e RANTES in particolare. Valori maggiori anche di TNF-α se comparato a WL e CL, non di CH I livelli di IL1A sono risultati particolarmente elevati nel gruppo CL rispetto ai WL.Tutti i riceventi da donatori in cattività (CH e CL) hanno registrato valori significativamente inferiori di IL-12(P40)
Considerando come le citochine, maggiormente espresse dal gruppo WH, siano sia pro – sia anti-infiammatorie, il legame tra microbiota “da cattività” e tra microbiota “da cattività” e aumento di peso, non sembrerebbe quindi esser mediato principalmente dall’infiammazione.
In conclusione dunque, il microbiota espresso in cattività ,simile a quello di individui in dieta occidentale, promuove l’aumento di peso a prescindere dal successivo apporto di fibre. Di contro, ceppi maggiormente espressi in donatori selvatici come Coprococcus, SMB53 e Bacillus , Actinotalea , e Clostridium hanno dimostrato di prevenire questa condizione, in combinazione con un alto introito di fibre. Manipolare opportunamente il microbiota di soggetti a rischio di obesità, sembrerebbe essere quindi una valida alternativa.
Più che l’apporto di fibre, sembrerebbe essere il microbiota intestinale a influenzare il peso corporeo. Modelli murini germ-free riceventi trapianto fecale da primati non umani selvatici, hanno mostrato un minor aumento di peso.Cio’ nonostante la dieta a scarso contenuto di fibre, rispetto ai riceventi da esemplari cresciuti in cattività, indipendentemente dal loro regime alimentare.
Se questi risultati saranno confermati nell’uomo, manipolare la componente batterica potrebbe quindi essere una valida strategia nel ridurre le problematiche di sovrappeso- obesità.




Dieta, Microbiota ed Attività terapeutica Pre-Probiotica
L’alimentazione che difende il microbiota deve essere corretta, diversificata ed equilibrata, così da garantire un microbiota sano, abbondante, in cui sono presenti e proliferano più generi e famiglie (phylum). Anche su questo versante, tutti gli studi pubblicati finora indicano nei principi della dieta mediterranea quelli più idonei a selezionare batteri a valenza positiva. Un’alimentazione ricca in cereali come frumento, riso, mais, avena, farro, con frutta e verdura, fornisce i substrati ideali per la proliferazione di batteri “buoni”, come i lattobacilli e bifidobatteri. Anche pesce, carne, formaggi, oltre a fornire proteine nobili e oligoelementi come zinco e selenio, stimolano la proliferazione di batteri altrettanto importanti. Ma è nell’equilibrio di questi nutrienti che si gioca la partita della salute. Il messaggio positivo della dieta mediterranea è questo e non sta certo nella proibizione di un alimento o nella difesa esclusiva di un altro. La rappresentazione grafica della piramide alimentare è stata infatti ideata per far cogliere rapidamente quale alimento debba essere consumato di più e quale di meno, grazie a migliaia di studi scientifici portati a termine in vari paesi del mondo, in un equilibrio educativo che hanno permesso di certificarne i benefici sullo stato di salute.
Un’alimentazione ampia nella scelta, onnivora, frazionata (si ricorda il frazionamento in 5 occasioni tra prima colazione, snack, pranzo, merenda e cena), frugale, che rispetti gli orari e i tempi dei pasti, si armonizza inoltre con i ritmi circadiani(32,33) che governano i tempi della digestione, dell’assorbimento e del metabolismo. È ormai dimostrato che la gestione dei nutrienti è più semplice e più funzionale nella prima parte della giornata, soprattutto per quando riguarda i carboidrati.
Tutto questo complesso di buone abitudini, che dovrebbero essere acquisite nell’infanzia, favorisce per tutta la vita ,non solo l’adesione a un apporto di nutrienti corretto (nella qualità e nei modi), ma anche la difesa della salute del microbiota. Al contrario, non rispettare il timing dei pasti e la varietà di scelta degli alimenti, può favorire nel tempo la comparsa di obesità, sindrome metabolica, diabete e disturbi gastrointestinali (34).
La moderna alimentazione e’ spesso costituita da cibi troppo raffinati e carenti nel loro contenuto naturale minerale e vitaminico, ad alto contenuto di carboidrati e di grassi(cibi spazzatura).Cio’ sembra essere un fattore di rischio ambientale per sovrappeso ed obesità e patologie ad esse correlate. Essendo la dieta un fattore importante per la strutturazione del microbiota e per la prevenzione dell’insorgenza di malattie, i regimi alimentari caratterizzati da cibi ad alto contenuto calorico, ricchi di proteine, zuccheri e grassi e carenti di fibre alimentari, possono essere responsabili di modificazioni a carico dei processi metabolici del microbiota . Le fibre stimolano naturalmente la peristalsi intestinale e quindi favoriscono il corretto funzionamento dell’intestino. Inoltre, di fibre si nutrono principalmente i batteri probiotici, i bifidobatteri in particolare. Le ricerche attuali stanno mettendo in relazione il fatto che una dieta ricca di grassi possa alterare il microbiota con conseguenze sulla sua funzione di barriera protettiva, provocando infiammazioni nei tessuti. Inoltre, potrebbe esistere una correlazione tra obesità, microbiota intestinale e funzioni cognitive, dato che le ricerche suggeriscono che gli squilibri del microbiota possano alterare i segnali che dall’intestino raggiungono il cervello, inserendosi e interferendo nella comunicazione dell’asse intestino-cervello. Esistono ipotesi, infatti, per cui diete sbilanciate, come quelle ad alto contenuto di grassi, alterino la comunicazione tra intestino e cervello, modifichino i circuiti cerebrali, inducendo infiammazione, alterando la sensazione di sazietà e contribuendo allo sviluppo dell’obesità (35).
Tra gli strumenti nutrizionali che possono modulare la composizione e le funzioni del microbiota intestinale, a scopi terapeutici, vengono inclusi cambiamenti nei regimi alimentari e trattamenti con probiotici e prebiotici(30)(36) Fig.3








Elie Metchnikoff è stato Premio Nobel per la Medicina e viene definito il “padre dei Probiotici”.Nel 1908 ipotizzo’ che la longevita’ dei contadini bulgari fosse collegata all’elevato consumo di latte fermentato.
Durante i suoi innumerevoli studi nell’Istituto Pasteur, Metchnikoff elaborò la teoria per cui il processo di invecchiamento fosse una malattia e, come tale, poteva essere curata, essendo il risultato dell’attività di microbi intestinali che producevano tossine causando un avvelenamento cellulare cronico alla base delle atrofie senili e, quindi, dell’invecchiamento.
I batteri proteolitici che rappresentano parte comune del normale microbiota umano producono sostanze molto tossiche tra cui fenoli, indoli ed ammoniaca dalla digestione delle proteine. Secondo Metchnikoff questi composti sarebbero stati responsabili di quella che chiamò “auto-intossicazione intestinale” e che causerebbe la progressione delle atrofie senili. Osservando il latte acido al microscopio, scoprì che l’acidità che impediva la putrefazione della flora intestinale poteva ricercarsi in un bacillo che chiamò Lactobacillus bulgaricus, in onore degli abitanti della Bulgaria conosciuti per la loro longevità, dovuta probabilmente al grande uso che facevano di latte acido. Era all’epoca noto, che il latte fermentato con batteri lattici inibiva la crescita dei batteri proteolitici, a causa del basso pH prodotto dalla fermentazione del lattosio. Basandosi su tali fatti, Metchnikoff propose che il consumo di latte fermentato stimolerebbe la crescita nell’intestino di batteri lattici ed inibirebbe quindi, abbassando il pH, la crescita di quelli proteolitici.
Da quel momento in poi il mondo conobbe i microrganismi probiotici e, soprattutto, la fine definitiva della generalizzazione per la quale tutti i microrganismi venivano percepiti come una minaccia per la salute dell’uomo. (Giovanni Di Maio Fonti: tratti del libro autobiografico “Life of Elie Metchnikoff” di Olga Metchnikoff)
Probiotici Naturali e Prevenzione Cardiovascolare: il KEFIR
Il kefir o chefir ( dal turco keyif che significa delizia)(37) è una bevanda ricca di fermenti lattici ottenuta dalla fermentazione del latte: originario del Caucaso, è tuttora molto popolare nell’ex Unione Sovietica; contiene circa lo 0,8% di acido lattico ed ha un gusto fresco a seconda delle diverse modalità di fermentazione. Il kefir può avere un piccolo contenuto di CO2 e di alcol dovuti entrambi ai processi fermentativi dei lieviti. Viene preparato utilizzando latte fresco (di pecora, capra o vacca) e i fermenti o granuli di chefir, formati da un polisaccaride chiamato kefiran che ospita colonie di batteri in prevalenza mesofili e lieviti in associazione simbiotica.
Recenti studi hanno dimostrato che è possibile ottenere il kefiran (grani di kefir) inoculando, con la flora batterica dello stomaco di capra, il latte contenuto in un otre di cuoio e sostituendo giornalmente metà del latte con latte fresco; dopo una decina di settimane si formano granuli di kefir(38)
Il kefir, bevanda ottenuta dalla fermentazione del latte prodotta dalla presenza del Kefiran, ha dimostrato di modulare la composizione del microbiota intestinale, in modelli murini. Rimane da chiarire un suo ulteriore impatto sull’asse microbiota-intestino-cervello e quindi sul comportamento dell’ospite.
Uno studio di Marcel van de Wouw e colleghi della University College Cork (Cork, Irlanda), di recente pubblicazione su Microbiome, dimostra che, somministrando a modelli murini due diversi tipi di kefir (Fr1 e UK4) e un latte non fermentato di controllo, viene evidenziato l’eventuale impatto nel profilo metabolico, immunitario e batterico a livello intestinale.(39) Sfruttando l’asse intestino-cervello, sembrerebbe possibile modulare il comportamento, l’umore e/o lo stato ansioso intervenendo sulla componente batterica intestinale. Una certa efficacia l’hanno finora dimostrata dei prebiotici (fibre vegetali) e determinati ceppi batterici (probiotici) che, nel complesso, vanno sotto il nome di “psicobiotici”.Di recente, prodotti della fermentazione del latte ,come il kefir, hanno mostrato proprietà simili. Il meccanismo che ne sta alla base rimane tuttavia ancora poco chiaro. Considerando poi come i probiotici utilizzati nel processo di fermentazione possano essere diversi, è altrettanto possibile che la loro assunzione impatti in maniera diversa sulla componente batterica e quindi, di conseguenza, sull’ospite. Per approfondire questo aspetto, i ricercatori hanno alimentato 48 modelli murini (n=4 per gruppo) per tre settimane, rispettivamente con latte bovino non fermentato, con Kefir Fr1, con Kefir UK4, o senza alcun supplemento (controlli) per determinare le eventuali alterazioni comportamentali, immunologiche, metaboliche e batteriche.
Kefir Fr1 ha indotto una separazione significativa nel microbiota di ileo e cieco, non di quello fecale. UK4 ha invece mostrato un impatto sulla funzionalità batterica a livello di cieco e feci, non nell’ileo.Tra i due, Fr1 ha mostrato di impattare maggiormente sul metaboloma seppur con differenze non significative. Mentre l’espressione dell’enzima transaminasi glutamina-fruttosio-6-fosfato (coinvolto nella produzione di glutammato) ha mostrato un aumento nell’ileo con entrambi i kefir, l’ammonio-glutammato sintasi ha registrato una variazione solo in relazione a Fr1.La glutammato-cisteina ligasi (aumentata) e triptofano sintasi (diminuita) invece solo con UK4.In relazione alle vie metaboliche, l’attività di biosintesi del p-cresolo fecale ha invece mostrato una diminuzione con Fr1 rispetto al gruppo con latte bovino. Andamento analogo per la biosintesi di acido chinolinico nel gruppo con UK4 che ha di contro registrato un aumento nella sintesi di inositolo e degradazione di GABA a livello dell’ileo. La via metabolica di “sintesi di GABA III” ha infine mostrato un significativo aumento fecale in entrambi i gruppi con kefir (Fr1 LDA = 4.39; UK4 LDA = 4.21) da ricondurre probabilmente all’aumento di L. reuterii. Il coinvolgimento di L. reuteri con la produzione di GABA dimostrata in altri studi è stata ulteriormente confermata dalla correlazione negativa con i livelli fecali di 2-ossiglutarato e glutammato (substrati di GABA) e da quella positiva con succinato (co-prodotto finale).
Nell’ambito dei ceppi correlabili all’asse intestine-cervello, l’aumento della sintesi di S- adenosilmetionina è da ricondurre a P. goldsteinii maggiormente presente nelle feci del gruppo ricevente Fr1 (LDA = 4.21) e UK4 (LDA = 4.08).In conclusione, seppur in maniera diversa, entrambi i tipi di kefir hanno dimostrato di modulare significativamente la composizione e la funzionalità della componente batterica. Anche il comportamento ne è risultato influenzato, rispetto al gruppo di controllo, per un’aumentata produzione di GABA da parte del microbiota.Cio’ probabilmente da ricollegare al parallelo incremento nell’espressione di Lactobacillus reuteri.
In una Review di F.Pimenta dal titolo ”Mechanism of Action of Kefir in chronic Cardiovascular and Metabolic Diseases”, pubblicata su Cellular Phisiology and Biochemistry del 2018,vengono presi in considerazione i cosiddetti Cibi Funzionali ed in particolare il Kefir.(40).I cibi funzionali sono quelli che inducono benefici sulla salute al di la’ della nutrizione di base,quando sono consumati con una dieta regolare. Inoltre i Probiotici ed i Sinbiotici ,che vengono consumati come supplementi alimentari, sono conosciuti per migliorare l’omeostasi intestinale, essendo sicuri e prodotti a basso costo. Il termine Sinbiotico viene utilizzato per descrivere differenti microrganismi vivi che crescono insieme, ognuno ottenendo i benefici specifici dall’altro(simbiosi) nel microbiota intestinale.In sintesi chiamiamo Sinbiotici le miscele sinergiche di prebiotici e probiotici insieme.
I granuli di Kefir risultano costituiti da una complessa comunita’ microbica, che contiene specie di batteri lattico-acidi e lieviti e che vengono usati per ottenere il latte fermentato, noto come Kefir. Recenti analisi di Grani di Kefir, consumati nella Regione Grande Vittoria in Brasile, hanno mostrato una microflora formata da batteri come il Lactobacillus Kefiranofaciens, Bifidobacteri e Lieviti come il Candida Kefir.Questi ultimi hanno dimostrato di presevare una eubiosi intestinale e correggere la disbiosi aderendo al muco intestinale.(41,42).
Le segnalazioni cliniche sui benefici del Kefir sulle malattie cardiovascolari sono riportati in recenti studi che hanno valutato gli effetti antiipertensivi,e sulla Sindrome Metabolica.Uno studio effettuato su ratti geneticamente ipertesi,utilizzando,il Kefir per un periodo di 30 giorni,ha mostrato una significativa riduzione del valori pressori.L’effetto ipotensivo del Kefir si e’ accompagnato ad una riduzione della tachicardia e della ipertrofia ventricolare sinistra,che sono caratteristici di questi animali di laboratorio(43).
Abbiamo gia’ visto che la Sindrome Metabolica rappresenta un insieme di alterazioni che causano un marcato aumento delle malattie cardiovascolari. L’Obesita’ e l’Insulino- resistenza sembrano essere i maggiori fattori predisponenti alle comorbidita’ come il diabete tipo 2 e le Malattie cardiovascolari e neurodegenerative. Sappiamo, inoltre , che un sano microbiota intestinale aiuta a controllare l’Obesita’ e l’Insulino-resistenza.(44). Studi su modelli sperimentali di Steatosi Epatica,hanno dimostrato che il Kefir e’ capace di ridurre l’attivita’ lipogenetica ed aumentare l’ossidazione degli acidi grassi, migliorando la steatosi che e’ chiaramente associata alla Sindrome Metabolica(45).Ne consegue che l’uso di probiotici e sinbiotici, principalmente il Kefir, e’ una promettente alternativa per la prevenzione ed il trattamento della Sindrome Metabolica e dei disturbi correlati. Inoltre uno studio di Hadisaputro et Al(46) ha dimostrato che, la supplementazione con Kefir, riduce la glicemia e migliora il bilanciamento tra pro ed Anti citochine Infiammatorie in un modello sperimentale di Diabete tipo 1.
In conclusione esistono evidenze sperimentali sulla interazione del microbiota intestinale e le malattie cardiovascolari e metaboliche. Questa interazione include il controllo autonomico sulla funzione cardiaca e vascolare,le dislipidemie e l’insulino-resistenza. Inoltre sembra che esistano meccanismi per cui il Kefir sembra migliorare queste alterazioni. Necessitano,peraltro, ulteriori studi per comprendere se il latte fermentato da grani di Kefir di origine diversa possa avere simili effetti benefici.
Conclusioni
Le linee guida europee sulla Prevenzione delle Malattie Cardiovascolari nella pratica clinica riferiscono, nella loro premessa, che “La prevenzione cardiovascolare (CV) viene definita come una serie di azioni coordinate intraprese a livello di popolazione e individuale, volte ad eliminare o ridurre al minimo l’impatto delle malattie cardiovascolari (MCV) e delle relative disabilità”(1,2).Negli ultimi anni, le linee guida internazionali per la prevenzione della malattia cardiovascolare, in generale, si sono orientate alla valutazione non solo dell’entità del singolo fattore di rischio (valore assoluto di pressione arteriosa, colesterolemia, ecc.) ma soprattutto alla valutazione del rischio cardiovascolare globale, legato alla contemporanea presenza di più fattori di rischio. Quest’ultimo, meglio definisce la probabilità che un singolo individuo ha di sviluppare un evento cardiovascolare maggiore nell’arco, in genere, di 5-10 anni. Il target fondamentale della prevenzione cardiovascolare globale fa’ riferimento, in particolare, alla prevenzione/riduzione dell’Aterosclerosi come fattore determinante del danno vascolare che, successivamente, genera le problematiche cardiovascolari. In questo contesto gli elementi preventivi basilari si rivolgono verso il controllo di quei parametri quasi tutti considerati all’interno della Sindrome Metabolica, una condizione presente nel 20-25% della popolazione generale ,caratterizzata da obesità viscerale, dislipidemia, alterazioni del metabolismo glucidico ed ipertensione arteriosa. I più recenti criteri per la diagnosi di Sindrome Metabolica sono stati proposti dall’International Diabetes Federation (IDF) nel 2009 e richiedono la presenza di obesità addominale. Questa viene definita con diversi cut-off di circonferenza addominale a seconda dell’etnia di appartenenza (per gli europei: >94 cm nei maschi e >80 cm nelle femmine) e la presenza di almeno due tra i seguenti criteri: trigliceridi >150 mg/dl, colesterolemia HDL <40 mg/dl nei maschi e <50 mg/dl nelle femmine o terapia ipolipemizzante, pressione arteriosa >130/85 mmHg o terapia antiipertensiva, glicemia a digiuno >100 mg/dl o pregressa diagnosi di diabete mellito tipo 2. La circonferenza addominale, criterio chiave in entrambe le definizioni, è predittiva di rischio cardiovascolare: ogni 5 cm di incremento si associa, infatti, a un aumento dell’11.9% del rischio di decesso per malattia cardiovascolare (11).
L’obesita’ addominale rappresenta il marker fondamentale per un aumento del rischio cardiovascolare nella popolazione. In particolare, i dati ricavati dagli studi sulle popolazioni asiatiche avevano mostrato una maggiore associazione tra obesità addominale e sviluppo di diabete. Il grasso viscerale, che si accumula nell’interno dell’addome, sembra rappresentare anche un indice di rischio più importante, rispetto al grasso che si accumula a livello sottocutaneo, per lo sviluppo di complicanze cardiovascolari. Sempre traendo spunto dalle Linee Guida Europee sulla Prevenzione delle Malattie Cardiovascolari nella pratica clinica, si rileva che I lipidi, come ad esempio il colesterolo ed i trigliceridi, rappresentino l’altro importante fattore che contribuisce alla comparsa delle malattie cardiovascolari.
Da qualche anno l’attenzione della comunita’ scientifica,si e’ rivolta alle caratteristiche ed al ruolo del Microbiota Intestinale, soprattutto nella comparsa dell’Aterosclerosi. Il microbiota intestinale è formato da numerose popolazioni microbiche: batteri, miceti, batteriofagi e virus, oggi definiti “mutualisti”. Attraverso un’associazione sinergica con l’apparato digerente, il microbiota intestinale lo controlla e costituisce un ecosistema di fondamentale importanza per la vita dell’uomo. I batteri che compongono il microbiota intestinale sono più di mille specie, con un peso complessivo di circa 1.5 kg e più di 15 000 ceppi differenti. Qualitativamente, esiste un ampio “core” di specie microbiche largamente condiviso dalla popolazione «normale». I phyla più rappresentativi sono Firmicutes e Actinobacteria, tra i gram positivi, e Bacteroidetes e Proteobacteria tra i gram negativi. Il ruolo di microorganismi nell’eziologia dell’aterosclerosi è noto dalla prima metà del XIX secolo, quando si individuò la presenza di agenti patogeni nella placca aterosclerotica. I meccanismi attraverso cui il microbiota ha un effetto sull’aterosclerosi potrebbero essere distinti in diretti e indiretti. Tra i primi consideriamo la capacità metabolizzante del microbiota intestinale, attraverso cui si originano sostanze che esercitano effetti pro o antiaterosclerotici. Gli effetti indiretti sono invece quelli che dipendono dalla capacità del microbiota intestinale di modulare dei fattori di rischio per l’aterosclerosi, quali l’obesità, il diabete e la dislipidemia (26). Elevate concentrazioni nel sangue di metaboliti del microbiota intestinale, in particolare la trimetilammina-N-ossido (TMAO) e i suoi precursori, sarebbero legate a un aumento del rischio cardiovascolare correlato a eventi avversi cardiovascolari maggiori e ad un aumento del rischio di mortalità. La TMAO modula il metabolismo di colesterolo e steroli, inducendo infiammazione a livello delle cellule endoteliali aortiche, contribuendo a incrementare, seppur in parte, il rischio di malattie cardiovascolari.
L’intestino e’ dotato di una fitta rete nervosa – si stima che nelle pareti interne del tratto gastrointestinale sia presente un numero di neuroni pari a circa cento milioni – ed il ruolo che svolge è in gran parte indipendente dal sistema nervoso centrale, a cui è strettamente collegato dal sistema nervoso autonomo, ma da cui non dipende per il suo funzionamento. (28). Tale situazione anatomica ha indotto il termine di Secondo Cervello che comunica con il sistema nervoso centrale. E questa comunicazione, all’interno dell’asse intestino- cervello , è bidirezionale, anche se si ritiene che siano di più i messaggi che partono dall’intestino e raggiungono il sistema nervoso centrale che viceversa. Il secondo cervello comunica con il sistema nervoso centrale. Ma vi è di più: all’interno dell’intestino co-esiste un altro organo: il microbiota intestinale che è in grado di codificare determinate funzioni che si ritiene possano avere un impatto sulla fisiologia umana e sulle condizioni di salute dell’ospite. Il microbiota, se in equilibrio, e quindi in eubiosi, contribuisce ad un sano funzionamento dell’intestino, rappresentando una risorsa preziosa che influenza la struttura del sistema immunitario gastrointestinale. In caso di disbiosi, invece, si determina un’alterazione qualitativa e quantitativa della microflora intestinale in termini di componenti e funzioni, condizione questa, che può gettare le basi per lo sviluppo di diverse patologie, comprese le infiammazioni croniche intestinali.
In sintesi, il microbiota intestinale può esercitare la sua influenza sul bilancio energetico dell’ospite, sulle funzioni metaboliche, immunitarie ed infiammatorie mediante diverse vie, su cui le ricerche degli ultimi anni si stanno focalizzando. Il microbiota può incidere su sovrappeso ed obesità, ma può avere anche un impatto sull’umore e sul buon funzionamento del cervello. L’epitelio intestinale risulta essere l’interfaccia tra ambiente, microbiota ed organismo nel suo insieme, svolgendo un ruolo sostanziale in tutti questi processi. La dieta è il principale fattore che influenza il microbiota intestinale. Quella occidentale ,in particolare, ha mostrato di ridurre la diversità batterica in quanto povera di fibre. Il legame tra composizione del microbiota, riduzione dell’apporto di fibre e aumento di peso non è stato tuttavia ancora del tutto compreso. L’alimentazione che difende il microbiota deve essere corretta, diversificata ed equilibrata, così da garantire un microbiota sano, abbondante, in cui sono presenti e proliferano più generi e famiglie (phylum). Anche su questo versante, tutti gli studi pubblicati finora indicano nei principi della dieta mediterranea quelli più idonei a selezionare batteri a valenza positiva. Un’alimentazione ricca in cereali come frumento, riso, mais, avena, farro, con frutta e verdura fornisce i substrati ideali per la proliferazione di batteri “buoni”, come i lattobacilli e bifidobatteri. Anche pesce, carne, formaggi, oltre a fornire proteine nobili e oligoelementi come zinco e selenio, stimolano la proliferazione di batteri altrettanto importanti. Ma è nell’equilibrio di questi nutrienti che si gioca la partita della salute. Esistono ipotesi, infatti, per cui diete sbilanciate, come quelle ad alto contenuto di grassi, alterino la comunicazione tra intestino e cervello, modifichino i circuiti cerebrali inducendo infiammazione, alterando la sensazione di sazietà e contribuendo allo sviluppo dell’obesità (35). Tra gli strumenti nutrizionali che possono modulare la composizione e le funzioni del microbiota intestinale, a scopi terapeutici, vengono inclusi cambiamenti nei regimi alimentari e trattamenti con probiotici e prebiotici.(30)(36).
Elie Metchnikoff è stato Premio Nobel per la Medicina e definito il “padre dei Probiotici”. Nel 1908 ipotizzo’ che la longevità dei contadini bulgari fosse collegata all’elevato consumo di latte fermentato. Osservando il latte acido al microscopio, scoprì che l’acidità che impediva la putrefazione della flora intestinale poteva ricercarsi in un bacillo che chiamò Lactobacillus bulgaricus, in onore degli abitanti della Bulgaria, conosciuti per la loro longevità, dovuta probabilmente al grande uso che facevano di latte acido. Era all’epoca noto che il latte fermentato con batteri lattici, inibiva la crescita dei batteri proteolitici a causa del basso pH prodotto dalla fermentazione del lattosio. Basandosi su tali fatti, Metchnikoff propose che il consumo di latte fermentato stimolerebbe la crescita nell’intestino di batteri lattici ed inibirebbe quindi, abbassando il pH, la crescita di quelli proteolitici. Nacque cosi’ la cognizione scientifica dei Probiotici.
Ed è proprio questa considerazione che, negli anni, ha portato all’utilizzo di sostanze probiotiche, utilizzate per migliorare prevalentemente gli effetti negativi sull’intestino di alcune infezioni ed, in particolare, correggere la diarrea.
Ma gli studi scientifici più recenti hanno considerato l’importanza del microbiota nella genesi delle patologie cardiovascolari e, di conseguenza, la possibilità di correggere il microbiota in disbiosi con dei prodotti probiotici . Tra questi vi e’ un interesse particolare su probiotici naturali come il Kefir.
Il kefir (37) è una bevanda ricca di fermenti lattici ottenuta dalla fermentazione del latte: originario del Caucaso, è tuttora molto popolare nell’ex Unione Sovietica; contiene circa lo 0,8% di acido lattico ed ha un gusto fresco. A seconda delle diverse modalità di fermentazione, il kefir può avere un piccolo contenuto di CO2 e di alcol dovuti entrambi ai processi fermentativi dei lieviti. Viene preparato utilizzando latte fresco (di pecora, capra o mucca) e i fermenti o granuli di chefir, formati da un polisaccaride chiamato kefiran, che ospita colonie di batteri, in prevalenza mesofili e lieviti in associazione simbiotica. Le segnalazioni cliniche sui benefici del Kefir ,sulle malattie cardiovascolari, sono riportati in recenti studi che hanno valutato gli effetti antiipertensivi, e sulla Sindrome Metabolica.
Abbiamo gia’ visto che la Sindrome Metabolica rappresenta un insieme di alterazioni che causano un marcato aumento delle malattie cardiovascolari. L’Obesita’ e l’Insulino- resistenza sembrano essere i maggiori fattori predisponenti alle comorbidita’, come il diabete tipo 2 e le Malattie cardiovascolari e neurodegenerative. Sappiamo, inoltre, che un sano microbiota intestinale aiuta a controllare l’Obesita’ e l’Insulino-resistenza.(44). Studi su modelli sperimentali di Steatosi Epatica,hanno dimostrato che il Kefir e’ capace di ridurre l’attivita’ lipogenetica ed aumentare l’ossidazione degli acidi grassi, migliorando la steatosi che e’ chiaramente associata alla Sindrome Metabolica(45). Ne consegue che l’uso di probiotici e sinbiotici, principalmente il Kefir,e’ una promettente alternativa per la prevenzione ed il trattamento della Sindrome Metabolica e dei disturbi correlati.
In conclusione esistono evidenze sperimentali sulla interazione del microbiota intestinale e le malattie cardiovascolari e metaboliche. Questa interazione include il controllo autonomico sulla funzione cardiaca e vascolare,le dislipidemie e l’insulino-resistenza. Inoltre sembra che esistano meccanismi per cui il Kefir sembra migliorare queste alterazioni.
Dott. Giancarlo Parisi
Specialista in Medicina Interna
Direttore UOC di Medicina Interna, AULSS6 Euganea, Regione Veneto
Delegato SISMED Regione Veneto
Bibliografia
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