Il mio punto(cuore) di vista
A cura del Prof. Claudio Ferri e della Dott.ssa Rita Del Pinto
Università di L’Aquila, UOC Medicina Interna San Salvatore – L’Aquila
Il controllo del rischio cardiovascolare complessivo richiede, oltre all’intervento sullo stile di vita, anche il ricorso alla terapia farmacologica. Fino a pochi anni fa, il classico armamentario contro l’ipercolesterolemia era costituito dai soli inibitori della idrossimetilglutaril-coenzima A (HMG-CoA) reduttasi, più noti come statine, nonché da ezetimibe e, residualmente, dalle resine sequestranti gli acidi biliari. Ad oggi possiamo contare anche sugli inibitori della proproteina convertasi subtilisina/kexina tipo 9 (PCSK9) e su molecole in fase avanzata di valutazione, pertanto prossimi alla commercializzazione: inclisiran, evinacumab ed acido bempedoico.
Le statine, come è noto, riducono la sintesi epatica del colesterolo inibendo in modo competitivo l'enzima HMG-CoA reduttasi e, a causa della riduzione del colesterolo intraepatocitario, promuovendo l’espressione del recettore per le LDL (LDLR) sulla superficie dell’epatocita. Il combinato disposto tra aumento della captazione del colesterolo LDL circolante e sua ridotta produzione intraepatocitaria risulta essere la netta e dose-dipendente diminuzione della concentrazione plasmatica di LDL. L’entità della riduzione del colesterolo LDL circolante dipenderà, però, non solo dalla dose, ma anche dalla tipologia di statina usata. Una statina ad alta intensità è definita, infatti, come quella che, in media, riduce il colesterolo LDL di almeno il 50%; una statina ad intensità moderata come quella in grado di ridurlo del 30–49%, mentre una a bassa intensità ridurrà le LDL al massimo del 29%.
Dura Lex sed Lex - Accesso riservato
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